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La promessa di matrimonio viene identificata dalla Cassazione nel c.d. fidanzamento ufficiale, che ricorre qualora si renda una libera dichiarazione espressa o tacita, resa pubblica nell’ambito della parentela, delle amicizie e delle conoscenze, con cui i futuri sposi si impegnano ufficialmente e dichiarano di volersi frequentare con la seria intenzione di sposarsi.
La promessa di matrimonio non è un contratto pertanto, in virtù della stessa, non sorge, in capo ai fidanzati, l’obbligo di contrarre matrimonio, in ossequio alla libertà matrimoniale, per cui la facoltà di sposarsi o meno costituisce un diritto fondamentale della persona. Tanto che, se anche i fidanzati dovessero addivenire ad un’intesa per determinare le conseguenze relative al mancato rispetto della promessa di matrimonio, detto accordo risulterebbe nullo, come se non fosse mai stato concluso (art. 79 c.c.).
L’art. 80 c.c. prevede che, dopo la rottura della promessa di matrimonio, a prescindere da quali siano le cause, ciascuno dei due ex fidanzati possa chiedere la restituzione dei c.d. doni prenunziali ovvero dei doni offerti al partner a causa della promessa medesima, se il matrimonio non è stato contratto. Chi vuole chiedere la restituzione dei doni fatti durante il fidanzamento, deve agire in giudizio entro un anno dalla rottura della promessa di matrimonio o dal giorno della morte di uno dei due fidanzati.
Dal c.d. fidanzamento ufficiale si distingue la promessa solenne di cui all’art. 81 c.c. Quest’ultima è rappresentata dalla dichiarazione resa con atto pubblico o scrittura privata da parte di soggetti maggiorenni capaci ovvero risultante dalla richiesta delle pubblicazioni di matrimonio.
Chi non rispetta la promessa di matrimonio prestata in forma solenne senza giusto motivo o chi, con il proprio comportamento colposo, ha dato giusto motivo al rifiuto dell’altro (per esempio per la scoperta del tradimento del partner), è tenuto a risarcire al fidanzato/a il danno cagionato per le spese fatte e le obbligazioni assunte in vista delle nozze. Su tale questione è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, che ha precisato il principio secondo cui “chi non riesce a dare una valida motivazione della scelta di rompere la promessa di matrimonio, è tenuto a risarcire i danni” (sentenza n. 20889 del 15 ottobre 2015). Tra le spese risarcibili, dottrina e giurisprudenza individuano quelle relative al viaggio di nozze, al banchetto nuziale, all’abito di nozze, ad oggetti destinati esclusivamente al matrimonio, all’arredo della casa, all’acquisto della casa familiare. Detto risarcimento del danno può essere chiesto entro un anno dal giorno del rifiuto di celebrare le nozze.
La giurisprudenza ha precisato che la rottura della promessa di matrimonio solenne comporta “la previsione a carico del recedente ingiustificato non di una piena responsabilità per danni, ma di un’obbligazione ex lege a rimborsare alla controparte quanto meno l’importo delle spese affrontate e delle obbligazioni contratte in vista del matrimonio. Non sono risarcibili voci di danno patrimoniale diverse da queste e men che mai gli eventuali danni non patrimoniali” (Cassazione, ordinanza 02.01.2012, n. 9). Pertanto chi decide di rompere senza giustificato motivo dalla promessa di matrimonio solenne, annullando le nozze, è tenuto a risarcire il danno cagionato all’altra parte per le spese fatte e per le obbligazioni contratte in vista della celebrazione ma non è tenuto a risarcire ulteriori danni patrimoniali né quelli morali o psicologici per la sofferenza subita.
Ricapitolando, il mancato rispetto della promessa di matrimonio in forma semplice comporta la restituzione dei doni fatti tra fidanzati mentre al rifiuto di eseguire la promessa di matrimonio in forma solenne senza giusto motivo o per propria colpa consegue l’obbligo di rimborsare alla controparte l’importo delle spese affrontate e delle obbligazioni contratte in vista delle nozze.